Milano, esterno, sera, 10 gradi e tanto smog.
C’è la nebbia, la tristezza mesta dell’autunno.
Io con l’anima flessa abbandono lo sguardo all'orizzonte.
Bianco e opaco.
Cammino incerta, senza una meta, ma con un perché. Sempre lo
stesso. Sempre vero.
Un passo alla volta con tocco lieve, di attese silenziose, bramo
la dolcezza dei momenti, la quiete degli abbracci, il calore delle pareti a
strisce bianche e gialle come le vecchie cabine degli stabilimenti balneari.
Disegno assonometrie sulle architetture della mia vita.
Mi distraggo con una signora che porta a spasso il cane con il
cappottino e la certezza di fare le cose giuste.
Gli affetti e le priorità.
Appoggio il piede storto. Come i bambini in equilibrio sul
cornicione dei marciapiedi, bassi ma altissimi. Proiettati verso il cielo, in bilico sulla terra.
Mi sento su un tappeto volante che non fluttua ma arranca e
sbuffa.
Come sull’incerto filo dei funamboli, sospesa.
Si pensa troppo spesso a come migliorare la propria vita. Completare
le frasi e sforzarsi di renderle comprensibili agli altri. L'unico modo per
mantenersi vivi è la leggerezza, la conseguenza più visibile è la semplicità.
Vorrei avere le stesse certezze di chi entra al
supermercato, con la lista della spesa ed esce col carrello pieno delle stesse
cose scritte sopra.
Invece io compro la vernice e il latte, il caffè e l’acqua
ragia.
Lo svolgimento di una simmetria che si complica nella
perfezione.
Il dentro che rimane dentro. Il fuori che rimane fuori.
Intanto il cane è tornato nel suo loft umano, con la voglia di correre e di strapparsi via quel ridicolo cappottino.
Come me. Ma senza voglia di correre e senza cappotto.
Ma con la voglia di un orizzonte colorato e la speranza di una meta e di un perché. Sempre lo stesso. Sempre più vero.
A darmi fiducia c'è il perno del mio piede che poggia storto, agganciato come una
piccola ancora alle certezze del mio cuore.