giovedì 10 ottobre 2019

Il Grigio: una storia tesa

Il Grigio è un’opera, un monologo teatrale scritto da Giorgio Gaber e Alessandro Luporini con la regia di Giorgio Gallione, in scena al Carcano.
Il protagonista, interpretato dal talento eccentrico e irriverente di Elio, ex leader degli “Elio e le Storie Tese”, è il prototipo dell’uomo medio contemporaneo che si ritrova ad affrontare una crisi esistenziale tanto banale quanto comune. 
É la storia di un uomo che si allontana da tutto e da tutti, afflitto più da problemi personali che sociali. Si ritira in campagna per stare tranquillo e fuggire da una ex moglie, un’amante, una figlia che forse non è sua. 
La sua desiderata solitudine è però subito disturbata da un fantomatico topo: è “il grigio”, forse un fantasma, forse una proiezione, certo l’elemento scatenante degli incubi e dell’inesorabile e ironico viaggio interiore, elemento portante dello spettacolo. 
Al flusso di coscienza si intervallano le canzoni di Gaber, magistralmente interpretate dalla voce possente di Elio, cercando di non distogliere l'attenzione dall'atmosfera intima disseminando di iconiche frasi il palco, arricchito da una scenografia semplice ma efficace. 
Il topo, incubo ricorrente, ma anche parametro per poter diventare migliori resta sempre, nonostante i trucchi, la forza e l'arguzia. E' il destino dell'uomo anche in un mondo invaso dalla volgarità, anche nella storia di un uomo “Pensatore vuoto con l'alibi del sentimento”. 
Rappresenta l’importanza di avere un avversario, un antagonista, una sfida per sfuggire alla monotonia e alla noia di una vita ripetitiva e senza significato, come quella del vicino di casa, generale in pensione, che pettina le galline e si lascia ipnotizzare dalla luce fluorescente della tv, giorno dopo giorno, con precisione marziale: “ognuno ha l’infinito che si merita”. 
“Il Grigio” è quindi, la “reincarnazione senza carne” di un uomo che a 50 anni le ha provate tutte, nella vita, nel lavoro, nei rapporti amorosi e si trova solo con la consapevolezza dei suoi mostri, de “i mostri che abbiamo dentro”, come cantava Gaber. 
Si resta con l’amaro in bocca, con la stessa rassegnazione e la stessa consapevolezza che raggiunge Drogo ne “Il deserto dei Tartari” di Buzzati, senza sconfiggere la morte o scacciare il topo, ma superando la paura di morire con il raggiungimento di un senso che supera l’individualità.

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